Quando
sei bambino ti chiedono tutti che cosa vorrai fare nella tua vita,
quale mestiere sceglierai per mantenerti e realizzarti come persona.
Io
avevo le idee molto chiare fin dall'infanzia:volevo girare il mondo
ma non ero ricca, per afferrare il mio sogno dovevo fare un lavoro
che unisse l'utile al dilettevole, così avevo deciso che sarei stata
un'hostess sugli aerei.
In
alternativa avrei potuto anche diventare ispettore di Polizia perché
era un lavoro dinamico che mi avrebbe consentito di dare un
contributo al mondo mettendo in galera ladri ed assassini.
Le
professioni che a quei tempi erano considerate le più adatte per i
soggetti di sesso femminile io non le calcolavo proprio, e se mi
avessero detto che un giorno sarei stata una maestra avrei riso di
cuore.
Io,
la ribelle, quella alla quale seguire le regole costava una fatica
immane, quella che non stava mai tranquilla e che a stare seduta per
più di un'ora venivano le spine al sedere, quella che contestava
tutto e tutti, come avrei potuto adeguarmi all'ambiente serioso della
scuola? Come avrei potuto redarguire bambini che erano come ero io e
farli stare zitti e buoni?Impensabile e ridicola un'idea del genere.
Passarono
le scuole elementari e andò tutto molto bene nonostante i miei
cambiassero città di residenza ogni anno e di conseguenza io dovevo
cambiare scuola. Forse grazie anche al maestro Manzi e al suo
programma “Non è mai troppo tardi” che io mi divertivo a seguire
ogni sera, ero brava anche senza studiare molto. I compiti erano un
piacere e li svolgevo in pochi minuti, a volte ne avrei voluti di più
così scrivevo cose di mia iniziativa e poi leggevo, leggevo, leggevo
tutto quello che mi capitava.
Poi
le scuole medie:la prima andò bene. La seconda e la terza un po'
meno, forse gli ormoni della pubertà peggiorarono il mio carattere
impulsivo e polemico.
Cominciai
a odiare la scuola e i professori mi infastidivano, mi sembrava mi
considerassero solo un contenitore da riempire di noiosissime nozioni
e non si interessassero a me come persona, che non comprendessero la
mia necessità di capire, al di là del ripetere la lezione: di fatto
non mi coinvolgevano nelle materie che insegnavano.
Ma
non erano ancora arrivati gli anni '70 e la scuola era quella: se si
interloquiva si passava per eversivi e maleducati, se si obiettava si
veniva accusati di non aver voglia di studiare.
Qualcosa
però nel mondo si stava muovendo e nelle città era cominciata la
rivolta studentesca anche se nei piccoli paesi come il mio era ancora
lontana l'idea di poter cambiare qualcosa.
Ricordo
che una mattina, in terza media, suggestionati dalle manifestazioni e
dai cortei che vedevamo in TV decidemmo di fare sciopero anche noi.
Non
sapevamo di preciso quale fosse il motivo ma volevamo sentirci parte
attiva del movimento riformatore.
Quella
nebbiosa mattina di novembre dell'anno 1969 decidemmo quindi di non
entrare a scuola.
Stavamo
tutti lì, fuori nel cortile del vecchio edificio e sembravamo tutti
molto convinti della nostra protesta.
Il
bidello Carrea era disperato, la campana era già suonata da parecchi
minuti e nessuno si muoveva, nessuno saliva la piccola scalinata che
dava accesso al portone.
Io
avevo l'impressione di stare dentro un formicaio, tutti andavano
avanti e indietro, si formavano capannelli, si disfacevano e poi se
ne formavano altri. Il brusio era continuo: si cercavano
informazioni, si guardava alla porta con ansia perché c'era sempre
il timore che qualcuno entrasse di soppiatto mandando così a monte
l'intera operazione.
Infatti
qualcuno aveva cominciato a dubitare della validità dell'iniziativa,
aveva paura di ritorsioni da parte della dirigenza e temeva le
botte che avrebbe ricevuto a casa di conseguenza .
A
quei tempi noi ragazzi avevamo sempre torto, i nostri genitori non
avrebbero mai pensato di prendere le nostre parti. E così era sempre
stato.
Il
povero bidello aveva già tentato varie volte di convincerci ad
entrare, lo faceva con affetto e bonarietà, ci voleva bene, aveva
paura per noi. Non aveva avuto successo e aveva chiamato Bobbio, il
suo collega, ad aiutarlo ma nemmeno in due ci convinsero a fare la
cosa che secondo loro era la più logica:entrare a scuola finché
eravamo in tempo. Soltanto qualche ragazzino di prima si era
persuaso, aveva ceduto tra gli sguardi carichi di astio della maggior
parte dei “rivoluzionari” che ora si erano avvicinati alla scala
impedendo l'accesso ai crumiri.
Erano
oramai le nove passate e il piazzale era ancora in tumulto quando
apparve lei, la vicepreside.
Alta,
imponente, capelli corti e mossi pettinati all'indietro senza un
ricciolo fuori posto, nemmeno le ciocche osavano disobbedirle e
restavano incollate alla posizione che lei aveva deciso per loro. Una
chioma biondastra talmente precisa ed ordinata da sembrare finta.
La
vicepreside, professoressa di matematica di quasi tutte le sezioni,
subito non parlò e abbracciò con un unico sguardo gelido la platea
che al suo apparire si era rifugiata in un silenzio improvviso e
totale. La mascella quadrata era tesa e la bocca contratta dalla
rabbia che cercava inutilmente di reprimere.
Con
poche nitide parole, chiese se ci rendevamo conto di quello che
stavamo facendo e promise che la nostra stupidaggine ci avrebbe
regalato un sette in condotta con conseguente inevitabile bocciatura.
A meno che... e si spostò di lato indicando l'entrata.
L'eco
delle sue parole non si era ancora esaurito che già i primi ragazzi
stavano salendo le scale, a testa bassa, senza guardarla negli occhi
e con il cuore stretto dalla paura.
Dopo
cinque minuti eravamo tutti in classe, seduti ai nostri deschetti.
Quella mattina non ci furono risate, non ci furono battute ma solo
sguardi sfuggenti a volte rancorosi verso i promotori della
sollevazione.
Si
sperava soltanto che l'incidente fosse dimenticato in fretta e che il
corpo docente perdonasse il nostro insensato gesto.
L'unico
desiderio era il ritorno alla normalità e avremmo voluto che nessuno
parlasse mai più dell'accaduto.
Invece
a ogni cambio di ora ci fu una lavata di capo, ci furono sguardi
carichi di superiore e rassegnata compassione, battute che ci
ridicolizzavano.
Io tacevo, ero stata tra i più convinti, ora ero solo la più
spaventata.
L'uscita
dell'una fu ancora più mesta. Io fuggii a casa dove confessai la
mia colpa solo ore più tardi e soltanto per paura che mia madre lo
apprendesse da altri genitori o dai professori alle udienze.
Mia
mamma non mi prese a sberle ma scosse la testa e disse che ero una
stupida.
Io
andai in camera mia a studiare.
Era
l'unico modo per salvarmi.