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lunedì 5 dicembre 2011

Lettera a Babbo Natale





Spett.le Babbo Natale,
le restituisco le sei paia di redini qui allegate. Immagino lei le abbia riconosciute subito; ebbene sì, sono quelle che lei usa di solito la notte di Natale per guidare le sue renne.
Gliele restituisco perché non si dia più tanto da fare a cercare i suoi animali; non sono fuggiti ma li ho rapiti io. E non è stato difficile, è bastata un po' di organizzazione e qualche complice che abita con lei. A proposito, le renne una volta non erano otto? Io ne ho trovate solo sei nella stalla. Le due che mancano se le sarà mica mangiate lei?
Non faccia quella faccia stupita ed adirata, non si senta vittima di un'ingiustizia da parte di qualcuno di molto cattivo! Ah, io me la immagino la sua espressione, mi sembra di vederla: ora si sta lisciando la barba e spera ancora che sia uno scherzo, irrigidisce la schiena e i lineamenti, poi diventa tutto rosso come il suo ridicolo abito.
Non sto scherzando glielo assicuro e se non le rivelo la mia identità non è per vigliaccheria ma è solo per tutelare la mia incolumità personale.
Se lo facessi verrei arrestato e dipinto come un mostro da giornali e televisioni. Io voglio rimanere in libertà perché credo di non aver commesso un crimine bensì un atto di giustizia.
Non alzi le bianche e cespugliose sopracciglia a quel modo ora! Non strabuzzi gli occhi e posi la fiaschetta del cognac, ascolti le mie parole con obiettività, e faccia un esame di coscienza.
Dunque dicevo che la mia azione è stata ed è un atto di giustizia , sì.
Qualcuno doveva porre fine alle sue scorribande notturne, scorribande finalizzate solamente ad idealizzare la sua persona,a farla apparire buona e amorevole illudendo i bambini e a volte anche gli adulti,con la favoletta dello spirito natalizio, della giustizia, dei doni recapitati gratis a chi si era comportato bene.
Questo non è mai accaduto e mai accadrà. E' uno strumento illusorio ed iniquo. Basta guardare la delusione dei bambini poveri la mattina di Natale. Basta spostarsi in giro per i quartieri, poi andare con lo sguardo nei paesi dove vivono i più poveri tra i poveri. Mi scusi , ma lei lì, ci è mai passato? E' mai entrato in quei miseri tuguri a lasciare un giochino, un panettone , un litro di latte?No vero?
Ho aspettato anni sperando in un suo ravvedimento e questo non c'è mai stato, ho deciso quindi di porre finalmente la parola “FINE” a questa farsa.
Rispettosamente la saluto per sempre.

Anonimo


P.S. Le renne stanno bene, di questo non si deve preoccupare, sono ben nutrite ed hanno molto spazio a disposizione e , se me lo consente, mi sembrano molto serene e felici. Non credo abbiano nostalgia né di lei, né degli gnomi che solevano accudirle

mercoledì 9 novembre 2011

Non scriverò niente su Santiago



Non scriverò niente su Santiago.
Non posso spiegare quello che è stato:come è possibile trasformare in parole le sensazioni che ho provato su quelle strade, su quei sentieri?
Non riesco a descrivere l'odore di quell'alba a Ferreiros, quando avevo ancora la notte negli occhi e mi avvolgeva il silenzio del bosco. Mentre soltanto i miei passi sulla terra umida scandivano il tempo ed era l'inizio di un giorno nuovo.
Profumo di aria bagnata, il respiro del mondo, la natura con me.
Mi sentivo viva come non mai, mi sentivo libera. Libera di pensare, libera di non farlo e di ascoltare la fatica, di ascoltare il mio corpo e il mio sudore, di percepire il freddo, il caldo e di goderne. Un passo dopo l'altro, una salita, una discesa, e poi un'altra salita. Il cammino, la metafora della vita, della mia vita , di tutte le vite. Una salita, una discesa, un attimo di gioia intensa quando il sole veniva su all'improvviso e accendeva i colori intorno e tutto brillava di vita nuova, gocce di rugiada come perle rare e fragili che svaniscono in un istante, ma c'erano un attimo prima. E poi la fatica: quando credevo di non farcela, quando mi faceva male tutto, e il fardello che avevo sulle spalle era pesante e non credevo di riuscire a trasportarlo ancora. Ma stringevo i denti e non lo ascoltavo, così ce la facevo.
Come riuscirei a far capire a chi non c'era che sono partita da sola, e là mi sono sentita meno sola che mai? E posso forse raccontare che percepivo qualcuno accanto, che camminava con me e mi accompagnava per un minuto o per tratti più lunghi e abbracciava la mia anima di amore infinito?
Pazza, sembrerei pazza, o visionaria.
E quando mi fermavo a riposare su un prato, su un sasso o accanto a una fonte e la mia mente era colma di serenità, il mio sorriso era il sorriso degli altri.
Le gambe andavano da sole e io guardavo le stelle agganciate al cielo nero.
Non trovo le parole.
No, non scriverò nulla su Santiago.

domenica 30 ottobre 2011

Un passo dopo l'altro


Un passo dopo l'altro
cammino e non mi accorgo
di quello che era ieri
di quello che sarà
Un passo dopo l'altro
proseguo sul sentiero
e non mi fermo ancora
aspetto di arrivare
Un passo dopo l'altro
io sento sotto i piedi
i ciottoli e le foglie
e guardo i miei pensieri
congiungersi alla terra
Un passo dopo l'altro
e sono ancora viva.

martedì 25 ottobre 2011

Se è sera e se piove


Se è sera e se piove
se il vento fa sentire i suoi sospiri
passando per caso
a scompigliarmi i capelli
E' solo il momento
che passa, mi sfiora e va via.

Checan


Checan

La vecchia abitazione di Checan, era ora deserta. Era rimasta vuota dopo la morte dello strano individuo che vi aveva vissuto ed ora fungeva da magazzino.
L'unica cosa che prendeva settimanalmente vita in quell'unica stanza era il vecchio enorme forno, il quale veniva acceso per cuocere il pane di tutti gli abitanti della Frazione Zerbetta superiore. Quando Checan morì, fu compiuta un'opera di disinfezione accurata del locale perché le abitudini del vecchio inquilino erano state, per dirla con un eufemismo, un po' strambe. Si raccontava infatti che avesse l'abitudine di tenere una gallina morta, anche di di malattia o trovata in giro, appesa fuori dalla finestra. Questo succedeva non solo d'inverno quando il freddo fungeva da frigorifero ma in tutte le stagioni. La lasciava lì e ogni tanto ne mangiava un pezzo facendolo arrostire sulla stufa. Carne che con l'andar dei giorni era quasi marcia e puzzava, ma lui diceva che era la frollatura che le dava sapore. La gente ai tempi in cui era ancora vivo, passava davanti a casa sua turandosi il naso perché oltre alla carne putrefatta, lui usava non lavarsi mai e si vantava di non avere mai fatto un bagno in vita sua. Affermava che era per questa ragione che non era mai stato malato.
Lavorava in campagna ma produceva solo quello che serviva al suo sostentamento.
Non aveva luce in casa e si scaldava con una stufa a legna, accesa di rado perché non soffriva nemmeno il freddo. In inverno non usava cappotti o giacche e i capelli sembravano un nido di merli.
Aveva sicuramente i pidocchi ma non gli davano fastidio e conviveva serenamente con loro. L'acqua la prendeva al pozzo e gliene serviva molto poca: non lavava gli abiti, beveva il suo vino e mangiava sempre nello stesso piatto che puliva bene con il pane. Secondo lui bastava quello.
Non aveva famiglia, i genitori erano morti. E chi lo avrebbe mai sposato? Solo qualche cugino aveva tentato inutilmente di cambiare le sue abitudini ma alla fine aveva rinunciato e lo aveva lasciato vivere come meglio gli pareva.
Non era cattivo, solo un po' burbero e scontroso. E comunque nessuno aveva grande interesse a socializzare con lui. La sua fama aveva travalicato i confini del piccolo sobborgo. Ancora oggi, a Gavi le persone anziane si ricordano di lui.

martedì 18 ottobre 2011

Alba


Stamattina è il colore
di un'alba fasciata di rosa
Odore piovigginoso
di attimi agguantati e fuggiti lontano.
E' il senso del tutto più forte che mai
E' un respiro di vita
Ed è tutto mio 

mercoledì 28 settembre 2011

La vita secondo Giovanni l'avvocato



Non era un uomo comune Giovanni.
Aveva fatto della sua vita un'isola dove le regole le stabiliva lui che si reputava un grande filosofo.
La prima regola era quella di non faticare.
Aveva lavorato dall'età di vent'anni fino ai venticinque in un'impresa edile come manovale, poi in seguito ad una non ben identificata malattia aveva avuto la pensione di invalidità e non aveva mai più fatto nulla.
Elegantissimo sempre: giacca, cravatta, camicia immacolata e scarpe stringate lucidissime, ogni giorno per lui era domenica.
Il fisico era asciutto e fumava con una certa grazia, col mignolo alzato e stringendo la sigaretta tra il pollice e l'indice. Si reputava un uomo di classe e si muoveva con stile.
La seconda regola era non spendere.
Ogni sera era ospite fisso al bar e si accomodava al tavolino .
Di solito non consumava mai a meno che non gli venisse offerto, cosa che comunque accadeva con regolarità.
Mentre stava lì si guardava intorno con gli occhi da furetto , il naso dantesco gli conferiva un'aria intellettuale e spiccava proprio al centro del viso dal colorito giallastro. Non gli sfuggiva nulla. Sempre all'erta e pronto a cogliere ogni cambiamento di stato da parte degli avventori del locale.
Vi erano dei riti da rispettare per non irritarlo: salutarlo sempre per primi, non chiamarlo mai col suo soprannome e usare un linguaggio adeguato se si parlava con lui. Guai a non rispettare le consegne, si andava incontro a critiche feroci ,a volte toglieva persino il saluto.
La terza regola dell'avvocato era discutere sempre e di qualunque cosa
Il suo gruppo preferito era quello della tarda serata , quando iniziavano i discorsi “seri” ed era variabile ma sempre nutrito.
Gli argomenti nascevano così per caso, si appigliava ad una frase qualunque che riteneva adatta , sempre secondo i suoi canoni, a dare il via alle danze, oppure sorgeva guardando qualcosa o qualcuno che si trovava lì in quel momento.
L'argomento preferito erano le donne con discussioni del tipo . :E' meglio sposare un donna bella che ti fa le corna o una brutta che non te le fa?
Giovanni, cominciava a parlare giocherellando con le sue solite mille lire arrotolate in mano,sempre le stesse.
-Ma capisci che sì insomma, una donna bella è una donna bella.
-Sì ma se poi la trovi a casa con un altro? Che figura fai?
-Hai ragione con una donna brutta sei in una botte di ferro , ma non ti darà mai soddisfazione
-Basta che lavi stiri e ti faccia da mangiare bene...
-Però non è detto che una donna bella sia infedele e viceversa...
E avanti così con la fiera delle banalità fino a notte inoltrata.
A volte si disquisiva sul cibo e si discuteva con lui se erano più buoni gli agnolotti nel vino o quelli al tocco. E anche lì si elencavano le varie qualità di vino e di sugo.
Non si riusciva mai a pervenire ad una conclusione.
Si facevano le nottate così, poi ognuno tornava a casa propria ed il giorno dopo si commentavano i commenti.
A volte si lasciava convincere ed andava a fare un giro fuori dal paese con gli amici più fidati, ma erano eventi molto rari perché c'era il rischio di spendere qualche soldo.
Ancora oggi si aggira per le strade del suo paese osservando tutto e tutti,al posto delle mille lire una banconota da cinque euro arrotolata tra le mani, sempre la stessa, con la quale si gingilla per darsi un contegno.
Lo puoi vedere agli angoli delle vie , dà sempre l'impressione di aspettare qualcuno e alla domanda -Cosa fai?Risponde che è in attesa di un amico. La sera non va al bar perché i suoi sostenitori non ci sono più: si sono fatti una vita hanno mogli e figli, guardano il vecchio ritrovo con distacco, sono diventati mariti e padri di famiglia. Non portano nemmeno i bambini a prendere il gelato , non devono far sapere che sono stati giovani e che non sono perfetti come vogliono far credere ma hanno qualche scheletro nell'armadio anche loro, come tutti.
Giovanni una famiglia non ce l'ha, così è sempre in giro, ma solo di giorno
Non discute e non filosofeggia più si guarda intorno sperduto, con i suoi cinque euro in mano.

La dentiera



Ve lo ricordate il Pruffe?
- Ma sì, certo quello di Stazzano.
Dopo tanti anni si erano ritrovati al bar S. Giorgio.
Il locale era attiguo alla bocciofila del paese in collina, dove per sfuggire al caldo afoso della città,andavano in villeggiatura da ragazzi.
Ezio, detto Pruffe, era il personaggio del luogo,un borgo di duemila anime che di tipi strani e originali ne contava parecchi, ma tra i quali lui spiccava come il più particolare.
Era un uomo mingherlino che aveva già passato i quaranta e bazzicava quotidianamente nel bar più frequentato di Stazzano.
Tale bar, prendeva il nome dal santo patrono, S. Giorgio appunto e l' immagine del drago, campeggiava sull'insegna un po' sbrecciata che dava sulla via alberata .
Bar S. Giorgio - Gioco delle bocce”.
La sera dopo cena, verso le nove, si vedeva arrivare l'omino dal fondo del viale: una marionetta alta meno di un metro e sessanta, pantaloni di gabardine di colore indefinito tra il beige e il grigiastro, tonalità dovuta ai lavaggi poco frequenti, camicia maniche corte rigata:una settimana verdina, la settimana seguente azzurro scolorito.
Mentre si avvicinava, arrancando nel suo strano modo di camminare, dondolava la testa a forma di lampadina e i radi capelli rimanevano immobili, imprigionati dalla brillantina Linetti.
Gli occhi scuri, stranamente belli nella loro vacuità, erano sovrastati da sopracciglia foltissime e nere, il naso e le labbra erano enormi.
Quando sorrideva, e lo faceva spesso, spiccava l'unico dente rimasto in bocca , ormai marcio e dondolante come erano stati i suoi compagni che già da tempo avevano abbandonato le arcate dentarie.
Il nostro Pruffe non si ritraeva quando gli chiedevano notizie della nuova dentiera, in lavorazione presso un meccanico dentista conosciutissimo nella zona, l'unico che aveva avuto il coraggio di mettere le mani in quell'antro e risistemarglielo al prezzo che Ezio era disposto a pagare.
Ti ricordi quando gli chiedevamo dei denti?
- Sì , che sagoma!
Ogni sera gli stessi discorsi:
- Come vanno le cose Ezio?
- Bene forse la prossima settimana è pronta!
- Siamo proprio contenti!Poi paghi da bere eh?
- Sì , sì tranquilli.
E la sera del grande evento finalmente arrivò.
Il Pruffe detto anche Piedi d'Aquila,quella volta camminava più veloce nel viale.
Si guardava intorno con macelata ansia , aveva novità da esternare agli amici e un sorriso nuovo di zecca da esibire. Forse sperava anche di fare colpo su qualche femmina. Sì, perché gli avevano fatto credere che il suo scarso successo con le donne, dipendeva esclusivamente dal suo problema con i denti.
Lo stavano aspettando tutti, la notizia aveva fatto il giro del locale e si avvertiva un gran fermento.
Alcuni avevano persino interrotto la partita di bocce per assistervi.
I soliti tre tipi, quelli che lo portavano in giro per poter ridere alle sue spalle, ma che comunque erano gli unici che lo facevano uscire dalla vita di paese e che lui per questo adorava, erano già appostati sulle scale, in attesa.
Quando giunse davanti all'ingresso il capannello si era decisamente infoltito.
Finalmente arrivato a destinazione, sorrise e le 32 bianchissime e lucide perle della protesi scintillarono. Si levò un'ovazione
- Ma fai vedere dai...
...Sorriso
- Ma guarda che bel lavoro!
...Sorriso più largo
- Come brillano!
- E' porcellana della più bella
- Ti danno fastidio quando mangi?
- No, è come se fossero i miei!
- Ma sono i tuoi, li hai pagati!
...Risata generale.
- E' bravo 'sto meccanico!
- Sì, proprio bravo!
...Sorrisone
- Ma quanto ti sono costati?
- Ventimila lire
- Però, un po' caro
- Eh, se andavo da un vero dentista mi costavano il doppio.
- C’era tutta la gente del bar, tutti intorno a lui: lo guardavano, si complimentavano, lo consideravano. Ezio si sentiva un Dio, gli occhi mandavano bagliori di felicità. L’avesse fatto prima!
Come non approfittare di una situazione così?Gli amici fedeli e un po’ bastardi, si guardarono un attimo e presero la decisione al volo, senza parlarsi.
- Dai andiamo a bere fuori, paghi tu eh?Lo avevi promesso. Bisogna festeggiare.
Il Pruffe cercò di tergiversare , viveva ancora con i genitori che lo trattavano come un adolescente e gli avevano imposto il coprifuoco entro mezzanotte, come Cenerentola.
Se non arrivava in orario, per un po' non lo facevano uscire.
Era capitato anche che la madre arrivasse al bar in camicia da notte a cercarlo con gran divertimento dei presenti e grande imbarazzo dell'attempato figliuolo.
Comunque , quella volta riuscirono a convincerlo dicendogli che sarebbero tornati a casa presto, anche loro il giorno dopo avevano il lavoro e dovevano alzarsi per tempo.
Lo caricarono in auto e lo portarono in città.

- Lo abbiamo portato a Milano quella sera, ai Navigli.
- Continuava a guardare l'ora ma poi dopo tre Negroni, non sapeva più niente.
-Che serata ragazzi!.
Tornarono a casa alle tre, Ezio era ubriaco fradicio. Nonostante la sbornia , saltò giù dall’auto e corse verso casa, una corsa un po’ ondeggiante ma pur sempre una corsa.
La madre era alla finestra, le luci in casa erano tutte accese. Gli amici si dileguarono in fretta.
Il giorno dopo si seppe dai vicini di casa che si erano udite urla terribili giungere da casa sua quella mattina.
Quell'estate, l'estate della dentiera, nessuno lo vide più in giro .
-Povero Pruffe, gliela abbiamo combinata bella, chissà che fine avrà fatto ?
- Vi ricordate quando riesumò la patente e prese ad andare in giro con la cinquecento?
- Sì , che personaggio!
- Ma questa è un'altra storia...

domenica 18 settembre 2011

Odore di mosto


Odore di mosto
profumo di mio padre
Lo rivedo
mentre sale la collina
a piedi nudi
la gerla sulle spalle
Terra dura che accompagna
la danza dei suoi passi
Il sorriso accende il colore dei suoi occhi
La sua voce
non l'ho dimenticata.
Mi mancano le foglie di quei tralci
le corse su per la salita
Ripenso alle risate.
Qualche volta le ritrovo
nelle nuvole al tramonto.

sabato 17 settembre 2011

La pazienza di un ragno



Se avessi la pazienza di un ragno
costruirei la tela senza fretta
e userei i miei fili di seta
per appendere le gocce di rugiada.
Se avessi il coraggio di un ragno
non avrei paura della pioggia
e mi cullerei nelle carezze del vento.
Se avessi la sagacia di un ragno
saprei aggiustare le fibre spezzate
ogni giorno, ogni momento.
E non conoscerei disillusioni
non piangerei sulle sconfitte,
non sperimenterei frustrazione.
Se avessi la pazienza di un ragno...

mercoledì 14 settembre 2011

Santiago





Un passo dopo l'altro e la strada mi appartiene
nei miei passi c'è il cammino
nelle mani la rugiada del mattino...

domenica 11 settembre 2011

OMBRA



E l'ombra lo specchio
raccoglie i pensieri
e la musica nella mia testa

accompagna la strada
ricalcando i miei passi
e non mi lascia mai
anche quando la salita si fa dura
e il respiro si fa corto.

A volte si allunga,
fugge verso strade sconosciute
vorrebbe forse volare via
ma resta
Ha occhi scuri
è madre
figlia, amica.

Quando il mio colore svanirà nel suo nero
saremo un tutt'uno con l'universo. 

venerdì 29 luglio 2011

Sere d'estate



Le sere d'estate si restava all'aperto fino alle undici . Era quella l'ora in cui l'aia si spopolava e gli uomini e le donne del borgo si ritiravano e tornavano a casa per andare a dormire. Le otto ore di sonno erano indispensabili se si voleva riuscire il giorno dopo a lavorare nei campi. Era un lavoro duro quello, dall'alba al tramonto, l'unico orologio che si guardava era il sole. Si lavorava con la luce e si smetteva quando questa andava giù
I contadini tornavano a casa stravolti dalla stanchezza,la pelle bruciata , le rughe scavate dalla fatica, pregustando finalmente qualche ora di sosta. Ed era così che dopo cena ci si ritrovava tutti nello stesso cortile. I primi ad arrivare erano gli uomini ed i bambini, per le donne c'erano ancora da fare le ultime faccende in casa e da sistemare le galline al riparo per la notte.
Ci si sedeva sul “trave” in fila uno vicino all'altro e si chiacchierava della giornata , dei conoscenti comuni dei nuovi nati e di quelli che se n'erano andati in grazia del Signore. Alla luce dell'unico lampione i visi si mimetizzavano con l'oscurità. Qualcuno si arrotolava da fumare: con gesti sicuri prendeva la bustina del tabacco dalla tasca, poi quella delle cartine. Le dita incallite arrotolavano con singolare destrezza la sigaretta. Poi con un fiammifero di legno si accendeva e si aspirava la prima boccata con evidente piacere. Nel buio si vedevano braci incandescenti brillare più vigorosamente ad ogni nuova tirata. Lumi che danzavano nel buio .
A volte si faceva musica. In quella sperduta frazione di contadini erano tutti musicisti. Carletto suonava la fisarmonica, Gnocco e Balin il violino, Carluccio la chitarra . Non è ben chiaro dove avessero studiato, si sapeva che Carletto era stato a lezione dal maestro Lavagnino che fu un grande musicista e compositore . Certo è che ci doveva essere una vena musicale genetica perché non si era mai vista una comunità così piccola che vantasse tanti musicisti. Quando suonava Carletto il cortile diventava una pista da ballo. Tutti danzavano , le donne se non avevano il cavaliere si univano alle amiche, i bambini felici ridevano e volteggiavano seguendo il ritmo. Carletto suonava ballabili: tango,valzer, mazurche. Le note scaturivano in modo naturale dallo strumento, le dita correvano veloci sulla tastiera .Erano dita grosse indurite dal lavoro ma che riuscivano a scorrere i comandi senza apparente sforzo. Il viso di Carletto si trasfigurava durante le esecuzioni, gli occhi si stringevano fino a diventare due fessure. Piegava il capo da una parte come se stesse ascoltando voci e suoni che gli giungevano da lontano, forse qualcuno o qualcosa , in quei momenti lo portava via in una dimensione magica e serena. La musica era il suo mondo parallelo, quello migliore di quello in cui viveva e che lui apprezzava comunque, nonostante le difficoltà quotidiane. E sorrideva. E sorridevano tutti. La musica aveva il potere di creare armonia tra persone e natura. Le note riempivano il silenzio delle notti d'estate , rendevano il mondo diverso, caratterizzavano i momenti rendendoli indimenticabili. Ridensificavano l'aria , volavano via e tornavano, si affievolivano per rafforzarsi quando le credevi ormai perdute. Giocavano a nascondino con il cielo.
Quel cielo nero nero, mantello della notte punteggiato da miliardi di diamanti.

venerdì 10 giugno 2011

La neve e la musica-una storia



A Carlo, mio padre

Si sedette vicino alla stufa mentre la donna si affrettava a oscurare le piccole finestre dell'isba. La fattoria sorgeva vicino alla strada: era una comunissima casa costruita con tronchi d'albero incastrati tra loro e il tetto ricoperto di paglia. Accanto ad essa vi erano una stalla e un fienile. La contadina era una donna di mezza età, col viso di cuoio e i lineamenti marcati. Solo gli occhi inducevano a pensare avesse in realtà meno anni di quelli che dimostrava. Erano occhi vivi e chiari, quasi stonati in quell'insieme, occhi di ragazzina in un contesto da vecchia. Era una persona abituata a lavorare duro, con qualunque tempo e per molte ore al giorno; la fatica l'aveva consumata nel fisico ma non aveva intaccato la freschezza e l'energia che quello sguardo comunicava. Si notava la sua agitazione in quel momento; se qualcuno avesse scoperto che aveva accolto in casa sua un nemico sarebbe andata incontro a grossi guai. I contadini e tutti gli abitanti dei paesi della zona avevano ricevuto istruzioni su come comportarsi nei confronti dei fuggiaschi: dovevano ignorarli e avvertire le autorità.
Katrina, però non ce la faceva più a vedere passare quei ragazzi lungo la strada senza fare nulla. Erano così giovani! E così malridotti. Avevano sguardi tormentati nei visi scavati dalla fame e dal freddo.
Quella mattina, quando si era accorta di quel soldato che piangeva lacrime gelate trascinando i piedi, la sua coscienza si era ribellata. Aveva pensato a suo figlio, anche lui in guerra, in quella stessa guerra ma dall'altra parte della barricata. Ragazzi che non si conoscevano e che dovevano uccidersi l'un l'altro. Anche questo giovanotto era il figlio di qualcuno, aveva di sicuro una madre, una famiglia che lo aspettava e che non sapeva nulla di lui. E se fosse successo al suo di figlio di trovarsi in difficoltà e nessuno lo avesse aiutato? Così gli aveva fatto cenno di entrare alla svelta e lo sguardo di gratitudine che lui le aveva rivolto aveva dissipato tutti i suoi dubbi.
Il soldato era un bel ragazzo, la magrezza e gli stenti non avevano modificato del tutto i suoi lineamenti, lo sguardo era ancora forte, si leggeva dentro di esso che apparteneva ad un uomo che non si arrendeva e non voleva consegnarsi alla morte. Lui le sorrise timidamente, quasi un cenno di scuse, perché sapeva ciò che la donna stava rischiando aiutandolo.
Lei gli indicò una sedia accanto alla stufa e lui si lasciò cadere su di essa stremato; poi avvicinò mani e piedi al calore del fuoco mentre il ghiaccio che aveva sui capelli, sulle ciglia e sulle sopracciglia aveva cominciato a sciogliersi e gli stava colando sul viso. I rivoli sembravano lacrime e andavano a morire sulla divisa stracciata. I soldati italiani erano i peggio equipaggiati ed erano arrivati in quelle terre inospitali dove il freddo dell'inverno portava spesso la temperatura a meno quaranta sottozero, senza attrezzature e con cibo insufficiente. In quelle zone ogni alba era blu dal gelo e i russi, temprati dall'abitudine, non avevano avuto difficoltà a ridurre gli invasori a un esercito di formiche agonizzanti, gelate, impaurite. Le strade erano cosparse di coperte abbandonate, di stracci e di cadaveri ai quali spesso i sopravvissuti dovevano rubare i vestiti per non congelare. Cercavano rifugio in casolari abbandonati o semidistrutti dai combattimenti e dalle cannonate ma le soste troppo brevi e la mancanza di cibo contribuivano ad aumentare la spossatezza; il freddo dava poi il colpo di grazia. Spesso dovevano litigare con i soldati tedeschi che li trattavano come sottoposti e li cacciavano dai rifugi aggredendoli con il calcio dei fucili. I più debilitati, i più sfiniti, i feriti e i più anziani si lasciavano andare e si fermavano aspettando la dolce morte dell'assideramento.
Carlo non era stato ferito, nonostante il passaggio sotto il fuoco nemico . Sembrava essere immune alle pallottole che spesso lo avevano sfiorato sibilando a pochi centimetri dal suo viso. Non le temeva, e attribuiva questa sua presunta immunità alla Madonna della Guardia del suo paese. Credeva lo proteggesse, ne aveva l'immaginetta nella tasca, gliel'aveva data sua madre il giorno in cui era partito. “Portala sempre con te e tornerai”gli aveva detto. E lui ci credeva e si sentiva potente, non avrebbe mollato, sarebbe tornato a casa, alla sua terra, ai suoi tramonti e alla sua musica.
Da troppo tempo non posava le dita sulla tastiera della sua fisarmonica. La fisarmonica, costruita per lui a Stradella, con la bottoniera di madreperla grigia sul lato sinistro e la tastiera bianca e nera su quello destro. Manovrava con destrezza il mantice rosso cupo mentre faceva correre le dita a formare armonie; sfiorava gli intarsi a forma di fiore e le due sirene sui lati che reggevano il suo nome e il suo cognome in corsivo. Le dita ora erano gonfie ma a volte si muovevano come se stessero suonando un valzer o un tango argentino. E allora la musica si sovrapponeva al rumore assordante delle cariche di artiglieria e lo cancellava, la ritrovava persino nel vento siberiano che passava ululando fra gli arbusti. La sua mente cercava la musica durante i massacranti quaranta chilometri quotidiani a piedi, senza poter salire su un carro e lasciar riposare le gambe nemmeno per qualche metro. Anche i feriti, se erano italiani,dovevano marciare a piedi perché i pochi camion riservati a loro erano stati occupati da tedeschi sani, disposti anche ad uccidere piuttosto che cedere il posto.
A volte quando le forze sembravano abbandonarlo Carlo visualizzava lo spartito, ripassava la posizione delle mani e ascoltava il fluire leggero di quell'arte che lo trasportava lontano, lo liberava dal freddo, gli dava la forza di continuare il cammino.
Quelle melodie lo trasportavano a casa: sedeva tra i filari, sentiva l'odore della terra scura e bagnata, assaporava il rosso di un tramonto, sfogliava i tralci di vite mentre il sole si buttava dietro la collina, poi risaliva l'erta della sua vigna da tutti chiamata Giardino per la sua posizione soleggiata. Così si allontanava da quella guerra che non aveva voluto, che non era la sua, che gli stava rubando la gioventù e aveva ucciso molti dei suoi compagni. Quella guerra che tirava fuori il peggio delle persone, che le faceva litigare per un pezzo di pane o per una patata trovata in un fienile o che faceva emergere generosità inimmaginabili, perché c'era anche chi aveva divideva l'ultimo boccone con i compagni più deboli.
Carlo odiava le armi e solo il pensiero di dover sparare a qualcuno gli dava nausea. Non era mai andato nemmeno a caccia, amava gli animali, figurarsi se poteva puntare il fucile sulla gente!
Fino a prima di partire per il fronte, faceva parte della banda militare e suonava la fisarmonica. Ma la Russia lo aveva messo in contatto con la parte più dura di quel conflitto e ora che stavano ripiegando aveva vissuto realtà terrificanti. Ogni giorno incontrava la morte, vestita da freddo, da fame, da guerra. Lo seguiva, si nascondeva tra gli alberi poi compariva all'improvviso e portava via qualcuno. Fino ad allora Carlo le era sfuggito ma la conosceva bene. L'aveva vista in faccia e l'aveva guardata negli occhi. La temeva ma non voleva lasciarla vincere. L'avrebbe fuggita e la scherniva, l'avrebbe ricacciata indietro con la forza del suo disprezzo.
Aveva ancora davanti, scolpito nel cervello, lo sguardo di Stefano, un ragazzo piemontese come lui, il giorno in cui aveva deciso di fermarsi. Si era bloccato all'improvviso, il viso sferzato dal vento gelido che soffiava sempre e non si fermava mai, tagliando la faccia come un coltello. Aveva il volto livido e le labbra violacee, il sangue non circolava più, le mani e i piedi erano gonfi come meloni e gli facevano male, ogni passo era una coltellata al cuore.
Non ho più forze” aveva detto. E si era lasciato cadere a terra.
Carlo non riuscì a convincerlo a proseguire, Stefano si accoccolò sulla neve e chiuse gli occhi:”Va' tu, non morire con me, non ne vale la pena. Io non ce la faccio più, tu hai una possibilità, continua a camminare, torna a casa. Vai dalla mia famiglia e porta mie notizie. Non voglio che si lascino andare a vane speranze di rivedermi”.
Non ci fu modo di dissuaderlo: alla fine Carlo si arrese al volere del compagno ma non lo lasciò solo, lo caricò sulle spalle lo condusse in un casolare abbandonato dove gli rimase accanto cercando di scaldarlo massaggiandogli gambe e braccia. Ma fu inutile e quando si rese conto che l'amico ormai era morto, aveva perso la colonna che stavano seguendo.
Si ritrovò solo in mezzo alla neve e senza nulla da mangiare. Era ormai alla disperazione quando scorse quell'isba nascosta tra la vegetazione. E quando si rese conto che la contadina lo avrebbe aiutato ringraziò la Madonna e riprese coraggio.
Ora stava al caldo, in quella stanza straniera e accogliente, sentiva il sangue che ricominciava a fluire e si accorse che lo stava prendendo il sonno. Tutta la stanchezza emergeva prepotente, aveva davvero bisogno di riposare almeno qualche ora. La donna gli offrì della vodka allungata con acqua e un po' di pane e formaggio. La bevanda fu uno schiaffo alle viscere ma servì a scaldare immediatamente le sue membra intorpidite. Masticò lentamente il cibo che gli era stato offerto assaporando piccoli bocconi. Si ricordò che da giorni non si nutriva quando si accorse della fatica che faceva a deglutire anche pezzi piccolissimi.
Quando vide che gli abiti si erano quasi asciugati del tutto si rese conto che di lì a poco avrebbe dovuto uscire e ricominciare a camminare. Non poteva rischiare che la neve cancellasse le tracce dei compagni: avrebbe perso la strada e la direzione e sarebbe morto di sicuro. Era comunque di umore meno cupo e si avviò verso la porta. La donna gli porse la bisaccia che lui sembrò più pensante di quando era arrivato. Si sarebbe poi accorto che conteneva una forma di formaggio e una pagnotta che la contadina gli aveva donato nonostante anche lei e la sua famiglia non avessero molto da mangiare. Lui non sapeva ancora che sarebbe stato il suo unico sostentamento per molti giorni a venire e una delle principali cause della sua salvezza.
Katrina gli fece una carezza sui capelli guardò fuori e gli fece cenno di via libera. Mormorò un saluto:”Xороший сын удачи-buona fortuna figliolo”, accennò un mesto sorriso e pensò a suo figlio. Si sentiva più serena adesso.
Carlo uscì e il gelo esterno gli dette uno scossone, il bianco del paesaggio lo abbagliò per qualche minuto e davanti agli occhi danzarono mille stelline. Davanti a sé un'interminabile pianura gelata. Sintonizzò i suoi pensieri, le note riempirono il silenzio e ricominciò a camminare con passo lento e costante.
(Emma Bricola diritti riservati) 

venerdì 13 maggio 2011

Se devo piangere


Se devo piangere
voglio farlo da sola
non voglio nessuno
ad asciugarmi le lacrime.
Voglio immergermi nei miei mari di dolore
affogare fino a perdere il respiro
dirigere la lama dei tormenti
nelle carni
e affondarla fino in fondo.
E quando finalmente
sarò solo sangue e ossa
potrò risalire la mia china
scalare la montagna
superare i sassi e le paludi
e dire grazie solo a me.

domenica 24 aprile 2011

Nel silenzio



E nel silenzio
ascolti i pensieri
portati da un mondo lontano
e apri un respiro dimenticato.

Scompaiono nebbie
e vorresti restare lassù
tra il verde smeraldo
nel grigio di perla
di un soffitto impalpabile.

E deponi le armi
in un mondo ideale
dove incontri la gente perduta
e la senti cantare
con la voce del vento.


sabato 9 aprile 2011

Anime mute



Grondante d'anime mute
di lacrime arse
tristezza, compagna di sempre
mi accogli al tuo grembo
mi culli in un morbido abbraccio.
Mi crogiolo in dita feline
assaporando il calore bugiardo.

martedì 5 aprile 2011

Non è solo pioggia



Non è solo pioggia
è acqua salata
qui dentro aggrappata
a chiuder respiri.
Nasconde il sorriso
lo acchiappa, lo uccide,
poi ingoia chimere
già perse
nel cerchio del tempo.

martedì 22 marzo 2011

E cammino




E cammino anche oggi.

Affronto un percorso stranito,
perseguo la strada
acciottolata nell'orrido nero del tempo.

 Avevo un pensiero bruciato,
avevo un'idea del cammino ,
diversa e più uguale.

Ma ora
 non sento la ghiaia umidiccia,
che incolla le scarpe alla terra.

Adesso cammino, cammino.
Non so dove vado
e neanche se un giorno ci arrivo. 

giovedì 10 marzo 2011

Anima sbiadita


E l'anima mia
si è sbiadita in questo silenzio, 
si è persa in strade ciottolose
irte di intricate liane di pensieri.
Oh, come vorrei ritrovarla un giorno
bianca di luce e sorridente ancora!

martedì 8 marzo 2011

A raccoglier parole




Raccoglier parole
come sassi nell'acqua
e  granelli di sole
che ti pungono gli occhi.
Ascoltare un pensiero
solitario e sfuggente
e la schiuma dell'onda
tra le mani bagnate.
Poi, rimane soltanto
il silenzio del pianto.